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19 marzo 2014 – Gyetiase mi insegna sempre qualcosa. Una delle tensioni più forti che vivo in questo Paese è legata allo stereotipo del bianco = ricco. Uno stereotipo che rende impossibile avere rapporti sinceri con la gran parte delle persone che incontri (i più poveri o i più ignoranti) e si manifesta nell’arroganza di chi pretende da te soldi, regali, promesse…

Così quando accade qualcosa che mi da’ torto e che mi ricorda che stereotipo e pregiudizio con inglobano tutti in modo indiscriminato, sono davvero contenta.

Qualche settimana ero a Gyetiase per i progetti di Ashanti Development, avrei dovuto arrivare una settimana prima e così trovarmi lì per il compleanno di Antonella, la bimba a cui hanno dato il mio nome, la mia figlioccia. Invece c’è stato un cambio di programma. Una volta a Gyetiase, Vivian, la madre di Antonella, mi manda i bambini (ha quattro figli) a dirmi che di lì a qualche giorno avremmo festeggiato il compleanno. Avevano rinviato per aspettarmi.

Lo ammetto, ho pensato che lo avevano fatto affinché organizzassi tutto: il regalo ad Antonella, qualche giochino per i bimbi che avremmo invitato, da bere, biscotti, caramelle e così via.

Invece…

Quando sono andata lì decine di bambini mi aspettavano seduti e silenziosi, per scoppiare – vedendomi – in saluti e richiami per farsi notare. Vivian aveva messo biscotti e altre cose sul tavolo e mentre io era impegnata a godermi i bimbi e la mia Antonella, lei ha mandato qualcuno a comprarmi una birra fresca. Questo dopo aver chiesto a Diana, senza darmelo a vedere, cosa mi piace. Certo anch’io sono arrivata con le mie cosine per i bimbi e per Antonella, ma a dire la verità mi sono sentita così … “povera di spirito”. Comunque, mai condivisione del poco fu più bella per me.

Ma non solo Gyetiase, una lezione mi è venuta anche da Adutwam. La prima da un ragazzo che ha aspettato da lontano per ore che fossi sola, poi si è avvicinato e mi ha chiesto se, la prossima volta, potevo portargli un computer . “Posso pagare – mi ha detto – ho 200 Ghana cedi”. Con 200 ghc non ci compra quasi nemmeno il mouse… Ho chiesto poi a Emmanuel, il direttore della scuola, chi fosse quel ragazzo un po’ strano. “Sì pensiamo che ha qualche problema, sempre la testa tra le nuvole… ma ha frequentato un corso o una scuola di ICT, non so bene. È un mago con il computer”. E poi lui, Emmanuel, il direttore della scuola, educato, sempre gentile. Mi dice: “quando torni in Italia posso darti i soldi per comprarmi un cellulare buono?

Meno male che le nostre convinzioni sono spesso abbattute dall’interessante diversità delle persone.

[Nelle foto, io e la piccola Antonella, lei con la sua migliore amica e un momento della distribuzione di biscotti e caramelle ai bambini]

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26 febbraio 2014 – Dai bambini dell’asilo di Adutwam un saluto a colori ad una delle nostre più sensibili sostenitrici, Tilde Draghetti. La prima ad aver fatto una donazione per l’inizio della costruzione della clinica.

Grazie Tilde! Da parte di noi bambini e di tutto il villaggio.

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25 febbraio 2014 – Scrivo al suono dei tamburi. Infatti: cosa sarebbe Gyetiase senza un funerale a settimana e tutta la confusione, il rumore, i suoni che ne conseguono? Solo che oggi è martedì e di solito i funerali si tengono dal venerdì alla domenica (con prolungamenti il lunedì). Mah, in questo Paese ogni volta che sembra che hai imparato qualcosa ti rimescolano le carte e via.

Sono qui per portare avanti il nostro progetto, la clinica ad Adutwam, per conto di Ashanti Development Italia e dei suoi sostenitori. Darò notizie nei prossimi giorni su questo blog, come sempre.

Intanto notavo quanto sta cambiando il mio rapporto con le persone che vivono qui – e non parlo solo dello staff di Ashanti Development, come Nicholas o Diana (che ora ha una splendida bambina che non mi ha accolto con diffidenza e lacrime come di solito accade quando bimbi piccoli vedono per la prima volta un obruni).

Esempio: la regola vuole che quando una persona estranea arriva nel villaggio deve andare a salutare il chief (capo villaggio) e il gruppo di anziani. Stamattina non ho fatto in tempo a prepararmi per assolvere al mio compito che… il capo villaggio era qui per darmi il benvenuto! Lo ha fatto perché ad Adutwam sono Nana Agyeiwaah Kodiè e quindi non dico pari ma – secondo le norme locali – un po’ più vicino al suo status? Comunque è stato bello e un po’ imbarazzante.

Ma ecco il dialogo surreale tra me e lui che parla pochissimo inglese: “Come sta la sua salute?” “Molto meglio grazie.” “E la sua vista? Vedo che ha degli occhiali nuovi.” “ Vedo molto bene, questi sono gli occhiali portati dai dottori di Ashanti UK.” “Oh, sono molto contenta e le stanno anche bene. E come sta la sua famiglia?” “ Ah bene, grazie, stanno tutti bene.” Arriva Diana ad aiutarmi finalmente. “Diana cosa sono questi tamburi?” E Diana: c’è un funerale oggi. Ah, e chi è morto? La sorella più anziana del capo villaggio, è venuto a salutarti ora perché poi sarà impegnato con il funerale.

E meno male che stavano tutti bene!

4 giugno 2013 – Ce l’abbiamo fatta! Oggi ad Adutwam abbiamo inaugurato il centro medico costruito con i fondi raccolti da Ashanti Development Italia. Ne abbiamo incontrati di ostacoli in questo anno e mezzo, ma nulla ci ha fermati. Doveva proprio andare così, dovevamo riuscirci. Era segnato nel “karma collettivo” di tutti gli amici che hanno sostenuto e finanziato il progetto.

L’incontro con Adutwam, questo remoto villaggio della Regione Ashanti del Ghana, è stato in qualche modo fortuito, come forse ho già raccontato da qualche parte. Eppure, niente succede per caso.

Quando il chief del villaggio, Nana Adu Appiah, mi ha chiesto di aiutarli, a nome della comunità, ho solo finto di rifletterci. In realtà l’istinto aveva già risposto sì. Il cuore mi ha detto che ce l’avrei fatta, a dispetto di tutto: della totale mancanza di esperienza come fundraiser, della difficoltà economica che sta attraversando il nostro Paese e che rende difficile chiedere di aiutare qualcuno lontano quando dobbiamo aiutare noi stessi. E a dispetto dei miei personali problemi: di lavoro, economici e quant’altro. Il cuore mi diceva giusto. Ora posso dire che ho fatto (abbiamo fatto) qualcosa di buono e questo qualcosa è destinato a durare. Al di là di tutto.

Ma per questo devo ringraziare tante, tantissime persone. Quelle che mi hanno sostenuto da subito – Pia, Paola, Irma, Roberto e la famiglia Bergonzoni – e quelle che si sono unite a noi lungo il cammino. Citarli tutti richiederebbe un lungo elenco, ma nella pagina dei testimonial di questo sito potete conoscere alcuni di loro.

Mentre ero lì, alla cerimonia di inaugurazione ho pensato spesso a tutti voi.

La mattinata è stata lunghissima. Canti, balli, le tipiche interminabili strette di mano e i lunghi, interminabili discorsi. Il mio compreso, però short.

Il villaggio era lì, felice, ed erano presenti il direttore del Dipartimento della Salute, in pratica il rappresentante del ministero; il  chief executive (che equivale al nostro sindaco) del distretto di Sekyere di cui fa parte Adutwam e altre autorità locali. Molte persone – amici che ho coltivato nel mio tempo qui – sono venute da altri villaggi e da Nsuta e Mampong. Insomma è stata davvero una gran festa.

Ora responsabili del centro medico sono anche – anzi soprattutto – le autorità locali. Nessuno di loro – mi ha poi spiegato il direttore  del Dipartimento che dop la cerimonia mi ha invitato nel suo ufficio – voleva investire ad Adutwam, perché il villaggio è troppo lontano e nei loro progetti, che devono tener conto delle scarse possibilità economiche, c’era altro. Alla fine – mi ha detto – sono stati davvero contenti del lavoro fatto ed ecco perché hanno già inviato un’infermiera e  presto invieranno un’ostetrica. Questo non era nelle nostre intenzioni né in quelle del Distretto, così come l’edificio all’inizio era stato pensato più modesto. Ma questo progetto ci è cresciuto tra le mani, come pane lievitato…

Il centro medico di Adutwam, quindi, è destinato non solo a primo soccorso e centro di salute, ma sarà utilizzato per le donne in gravidanza e per i parti. Una cosa bellissima in un luogo dove ancora può accadere (è accaduto) che una donna muoia di parto perché non riesce ad arrivare in tempo in ospedale.

Ora il centro va “riempito” della strumentazione medica per funzionare come deve. Qualcosa è già arrivato, offerto dalle amiche Licia Gaggioli e Morena Baldini.

Mi hanno chiesto un letto per il parto tanto per cominciare, ma – sia il sindaco che il direttore del Dipartimento – mi hanno anche promesso che gli sforzi saranno condivisi e ognuno farà la sua parte. Vediamo, vediamo. L’Africa mi ha insegnato che bisogna pregare (fare tanto daimoku) avere pazienza e lasciare andare le cose come devono andare. Sforzarsi e rilassarsi. Fare bene la propria parte e saper aspettare i risultati. Non vi dico che è tutto bellissimo, facile e roseo. Però è una gran bella sfida.

Intanto spero che presto qualche volontario si faccia avanti – medici, infermieri, insegnanti. Vi assicuro che l’esperienza è davvero stimolante e arricchente.

Infine, per tutti noi è importante ricordare che il centro medico è dedicato alla memoria di Lucia Galati, madre del nostro socio e amico Davide Galati. Lucia ci ha lasciato qualche mese fa, ma prima di andare ha sostenuto molto Ashanti Development e il progetto del centro medico. È anche grazie a lei se oggi questo esiste.

PS: Poche volte mi sono sentita così felice e orgogliosa come questa mattina…

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31 maggio 2013 – Ieri ho “benedetto” due bambini. Mi succede anche questo, qui in Ghana. Perché? Perché sono bianca, perché spesso anche le persone da cui non te lo aspetteresti  rimangono ancorate a certe convinzioni e strane credenze. Come quelle che una donna bianca possa portare fortuna e benessere nella loro vita. A chiedermelo è stata una delle insegnanti di Vivian che ero andata a trovare a scuola.

Quindi non una persona senza alcuna cultura. Eppure… Quando mi ha chiesto to bless il piccolino di pochi mesi che aveva in braccio e l’altro, altrettanto piccolo tra le braccia della sua collega non mi sono meravigliata giusto perché dopo qualche anno un po’ sconosco questo Paese, però ho cercato di spiegarle: ma non sono un prete, non sono un pastore, non sono nemmeno una suora…

Niente da fare, lei era più convinta di me. Quindi ho preso le due manine (dell’uno e dell’altro) tra le mie dita e gli ho augurato una vita felice. Una vita felice nel cuore. E lei: ma non hai nominato Dio; e io Dio è felicità. Convinta a metà mi ha chiesto di dire qualcosa di più al suo bambino, allora ho aggiunto: ti auguro di guardare il mondo con i tuoi occhi, non con quelli di altri. Non so perché ho detto queste cose, anzi lo so. Quello che ho desiderato per quei bambini lo desidero per me. Sempre. Difficile, soprattutto provare felicità dentro non condizionata dalle circostanze. Difficile, ma non impossibile.

Ieri era probabilmente una giornata speciale per me – che emanassi qualche aura? Passando per Nsuta per tornare a casa con Vivian, da lontano una bambina ha cercato di attrarre la mia attenzione e si è messa a correre verso di me. La mamma ci ha raggiunto e mi ha detto: voleva conoscerti, lei si chiama Little Joy

Non ho scattato nessuna foto, né ai bambini “benedetti” né a Little Joy, che nelle sue treccine era veramente meravigliosa. Certe emozioni non devono essere disturbate.

25 maggio 2013 – I bambini dell’asilo di Adutwam sono fantastici. Come tutti i bambini del resto. Riescono a essere rumorosi come le pale di un elicottero e, nello stesso tempo, silenziosi come una notte buia e senza stelle. E sanno essere educati come si insegna ad essere, a casa e a scuola, ai bambini e adolescenti africani. Spesso ricorrendo a punizioni e all’uso di una bacchetta, che corrisponde ad un ramo d’albero.

Qualche giorno fa ci siamo dedicati un po’ di tempo. Ho portato ai maestri e alle maestre un po’ di materiale scolastico acquistato grazie all’aiuto dei bambini dell’asilo S. Antonio a Padova con cui abbiamo in corso un gemellaggio. I soldini dei bambini sono state raccolti in occasione di un laboratorio ludico didattico tenuto nell’asilo di Padova. (Potete leggerne di più nella pagina delle News di questo sito). Il materiale è stato acquistato a Kumasi poiché la politica di Ashanti Development è cercare di comprare quello che ci serve in loco in modo da sostenere l’economia della regione.

Pastelli, quaderni da disegno, fogli per disegnare, matite e anche qualche libro per le prime classi delle primarie, per non far sentire meno importanti sia gli insegnati di quelle classi che gli alunni. Non è carità, ma qui a volte si fa davvero fatica anche a comprare la divisa scolastica ai figli e il materiale didattico è davvero scarso. Per non parlare dell’edificio che ospita l’asilo e le primarie. Guardate la foto che parla da sola.

I bambini hanno guardato i disegni che i bambini e le maestre di Padova mi hanno consegnato prima che partissi. Poi hanno visto un breve video girato nell’asilo padovano, con i bambini italiani che cantano per loro qualche canzoncina. Quando gli ho chiesto se volevano fare lo stesso per i loro amici italiani quasi quasi non smettevano più. Per non parlare dell’entusiasmo e della partecipazione delle maestre – Angela, Rita e Sara – e del direttore, Emmanuel Asante.

Insomma, una splendida giornata! Per loro, ma anche per me.

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19 maggio 2013 – Belle novità da Gyetiase.  Vivian, la mamma della mia step-daughter Antonella, ha deciso di tornare a scuola! Ha 29 anni e 4 figli, l’ultima a cui hanno dato il mio nome, ha due anni e tre mesi.

Si è iscritta alla Junior school (più o meno la nostra scuola media) e da lì vuole continuare la Senior (diciamo il nostro liceo) e diventare infermiera. Che scelta coraggiosa!

La prima cosa che ha dovuto fare è stata tagliarsi i capelli. Qui le ragazze che vanno a scuola non possono tenere i capelli lunghi perché si ritiene che la cura dei capelli lunghi le distragga dallo studio. La seconda cosa è stata entrare in una classe di persone più giovani. Nessuno ostacolo, invece, con il marito che è stato assolutamente d’accordo. Vivian è una delle prime donne del villaggio a cui Ashanti Development ha destinato il prestito del programma di microcredito per avviare un piccolo commercio. È una donna intelligente e determinata. Brava la mia amica Vivian!

Così come è intelligente e piena di sensibilità Diana. Diana fa parte dello staff locale di Ashanti Development e si prende cura dei volontari che vengono qui. Ora è incinta e il parto è atteso a giorni. Non posso mostrarvi una sua foto perché non è permesso fotografare le donne incinta. Ora è a casa per i tre mesi che le spettano per il parto. Ieri io, David (un altro volontario che è qui in questo periodo) ed Elizabeth, la cuoca, siamo andati a trovarla nel suo villaggio, Jamasi (che lei però chiama town, per tenerlo ben distinto da villaggi come Gyetiase). Una casa modestissima di una stanza divisa in due e senza acqua corrente. Ma tenuta come un gioiello. Ci ha preparato un ottimo fufu!

E, infine, Antonella, la mia piccolina. Quando mi ha rivisto per la prima volta mi ha accolto con un bel pianto impaurito. Ora, quando insisto nel baciarla si fa un sacco di risate, mi dà la manina e quando va via mi saluta da lontano. Nella prima foto è con Vivian. Ogni volta che vado da loro o mi vengono a trovare Vivian le mette i vestitini più belli.

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17 maggio 2013 – Io e David, un volontario da Londra che è qui in questo periodo con il ruolo di trainer per gli insegnanti della Junior e Senior school, abbiamo scoperto il piacere di fare una passeggiata nel pomeriggio sulla strada rossa che da Gyetiase porta a Mampong e fermarci alla Farmer’s Cave.

Il luogo è surreale solo per il semplice fatto che si trova nel mezzo del nulla, tra campi di cassava, il sentiero dalla terra rossa appunto, qualche casa diroccata, capre, tacchini e galline in libertà. Guardando da fuori non penseresti che all’interno c’è uno spazio che cerca di assomigliare ai bei locali all’aperto europei, tavolini e sedie (scadenti e pericolanti, David ne ha spaccate due e non per il suo peso), una rotonda per la band (David giura che una volta – io non c’ero – ce n’è stata una che ha suonato solo per lui), un bar con bevande fresche! Ci facciamo una birra e chiacchieriamo.

A servire ai tavoli Barbara, qui solo per qualche tempo in visita alla madre, ci ha detto. Lei vive ad Accra. Non faccio nessuna fatica a crederci tanta è la differenza tra le ragazze dei villaggi e quelle che vivono in città. Buon inglese, una certa dose di furbizia e modi affettati…

Ieri si è fermato un po’ con noi il proprietario, in realtà lo abbiamo chiamato noi perché eravamo curiosi di sapere chi fosse. È stata davvero una conversazione interessante. Negli anni ’80, periodo di instabilità in Ghana che per fortuna non è sfociato in guerra civile, ha tentato la strada dell’estero passando per la Nigeria. Non vi racconto tutta la storia – troppo lunga. Da lì riesce ad arrivare in Germania dove lavora per molti anni e poi tenta con l’America, dove vive per qualche tempo a New York.

Questa la sua sintesi delle due culture e dell’atteggiamento nei confronti dei neri: quando in Germania ero disperato e mi tenevo la testa tra le mani la gente si avvicinava e mi chiedeva: “cos’hai?”. Io gli raccontavo i miei problemi e loro tornavano con birra, cibo e mi facevano compagnia. In America se mi tenevo la testa tra le mani solo la polizia si avvicina per chiedere se tutto andava bene. Ma poi non succedeva niente. In Europa non sei mai solo, negli USA te la devi cavare da solo.

Riflettevo: e com’è l’Africa per un bianco, una donna bianca, che programna di viverci più a lungo? Nessuno ti chiede come stai, più o meno tutti pensano che se sei lì in qualche modo devi aiutare loro, non aspettarti qualcosa. Sei l’acqua nella terra del fuoco e tu solo conosci il fuoco che ti arde dentro. Sei solo con te stesso. Almeno Kofi (questo il nome del proprietario della Farmer’s Cave) negli USA poteva contare sull’attenzione professionale degli agenti. Qui anche la polizia sta lì ad aspettarsi la banconota che scivola nel palmo della mano. (Ok, non tutti naturalmente).

Altra considerazione: Kofi continuava a dire: voi europei siete brave persone e vi assomigliate tutti, nell’aspetto e nella cultura. Io sono stato in Europa e posso riconoscervi, ma qui può accadere che quando vedono un bianco non lo distinguono da quello che vedono il giorno dopo. Ecco, questo fa il paio con i pregiudizi sull’Africa e sugli africani di cui ho parlato nel mio ebook, White Arrogance. Prima o poi mi devo dedicare alla Black Arrogance. Ah, meno male che poi ha aggiunto: ma se togliamo via la nostra pelle nera e la vostra bianca alla fine siamo tutti uguali.
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RICKY-MANINApiccola16 maggio 2013 – Ricky ha solo pochi mesi, vedete com’è piccola la sua manina? Ed è il nostro donor più giovane! Che bello poter vantare un bimbino piccolo piccolo tra i nostri amici. Quanti hanno questo privilegio?

La sua prozia Tamara, che è già tra i nostri sostenitori, lo ha aiutato con le pratiche del bonifico… e lo aiuterà a capire il senso di questo gesto.

Davvero vorrei leggere i suoi pensieri quando, un po’ più grande, glielo racconteranno.

Grazie Ricky!




15 maggio 2013 – Qualche giorno fa (solo ora riesco ad approfittare della connessione Internet), sono andata a Ekowo, uno dei villaggi – piccolo e solitario – sostenuti da Ashanti Development.

Io e Diana abbiamo portato il contributo mensile che riserviamo alle persone anziane che mancano completamente di sostegno e i cui familiari o sono morti o sono tutti lontano.

Le donne che vedete nella foto mi hanno accolto con grande affetto, ringraziandomi cento volte. Una di loro è andata a cambiarsi per la foto e, prima che andassi via, mi ha voluto regalare un cestino di avocado! La foresta intorno ne è piena.

La generosità delle persone che hanno più bisogno a volte non ha confini, ne ho già mangiato tre e condiviso con le persone della casa che ospita i volontari di Ashanti Development. Qualcun altro vuole assaggiarne?

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7 maggio 2013 – Vorrei raccontarvi tante cose, ma ho troppa paura che la connessione mi abbandoni mentre scrivo (accaduto decine e decine di volte).

Eccomi qui da Gyetiase a dirvi che i nostri sforzi (i vostri soprattutto) stanno dando i loro frutti.

La clinica ad Adutwam, sponsorizzata da Ashanti Development Italia è quasi terminata. Domani andremo ad acquistare i serbatoi per l’acqua e poi rimane da allacciare la corrente (l’impianto è già pronto). Acquisteremo anche un po’ di mobilio così l’infermiera, promessa dal distretto e già lì, potrà andare a vivere all’interno dell’edificio. C’è anche l’accordo per un’infermiera professionale. Vedremo quando sarà disponibile.

Stiamo organizzando per l’inaugurazione ufficiale – che dovrebbe essere i primi di giugno -. In quell’occasione ufficialmente “consegnerò” le chiavi del centro medico al capo villaggio e agli anziani alla presenza del capo del distretto locale.

Ovviamente ci sarà tanto ancora da fare, ma il più possiamo davvero dire di averlo fatto.

Quindi invito i nostri maggiori donors, i fondatori e tutti i soci e amici di Ashanti Development a farci un pensierino.

Non è troppo tardi per prenotare un volo…

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5 febbraio 2013Addio Mr. Marfo. Da oggi Mr. Marfo non c’è più. Appena sveglia ho acceso il pc e lì, sulla mia posta elettronica mi aspettava la notizia. Com’è strano e fantastico quanto sappiamo “sentire” le cose prima che avvengano. Ieri sera avevo detto a Pia (Balboni): “voglio chiamare Mr. Marfo, ma in Ghana si va a letto presto. Lo farò domattina“. Non c’è stato tempo. Certo sapevo che era ammalato, ma proprio qualche giorno fa Nicholas mi aveva detto che si era ripreso e stava molto meglio.

Mr. Henry Marfo, o “Master” come tutti noi di Ashanti lo chiamavamo con affetto, era il “Director of Operations” di Ashanti Development. Una posizione forse altisonante, quando all’inizio Ashanti Development non era che una piccola Charity costituita da una decina di volontari. Ma lui ne è andava così fiero ed è anche perché ci credeva davvero che la nostra Organizzazione in pochissimi anni è cresciuta tanto da essere una delle poche (forse l’unica estera) a lavorare in quell’area del Paese e ad essere riconosciuta sia dalle piccole comunità locali che dalle Istituzioni centrali.

Mr. Marfo era stato insegnante e poi direttore di scuola e ancora ricordo quando andavamo nei villaggi e i suoi ex studenti gli venivano incontro per salutarlo. Anche io ho di lui  i miei ricordi speciali. Ci siamo piaciuti fin dall’inizio, mi trovava un po’ diversa dai seri e compìti volontari inglesi. E poi i suoi tre figli vivono in Italia da anni. È qui, nel nostro Paese, che hanno trovato lavoro. E lui ne parlava sempre.

Ci piaceva ridere e scherzare. Quando sapeva che dovevo viaggiare (ad esempio quando andavo a Kumasi dove c’è il Centro della Soka Gakkai) mi telefonava all’alba e mi diceva. “Oggi devi andare alla tua chiesa vero? Ti sto mandando una macchina“. E qualche volta veniva anche lui e mi accompagnava alla stazione del tro tro a Mampong dove mi raccomandava all’autista.

Quando mi sono ammalata di malaria era lì con me in ospedale e cercava di convincermi a mangiare quello che mi aveva portato da casa preparato dalla moglie. Ma se parlavamo di medicinali conveniva con me: le medicine sono veleni, mi diceva.

E soprattutto Mr. Marfo era un padre. Era stato “nominato” il mio step-father quando il villaggio di Adutwam mi fece queen mother. Quel giorno non stavo molto bene fisicamente ed ero alquanto confusa per la novità, per quello che avveniva intorno a me. Ma la sua calma, la sua calma di sempre, mi facevano sentire così bene…

Grazie Mr. Marfo. davvero è stato bello conoscerti.

Avevamo un progetto insieme: ci avevi chiesto, a me e a Davide Galati, di realizzare una stazione di ricezione radio nel tuo villaggio di nascita. “Per queste persone ascoltare la radio è importante” ci spiegavi. Non abbiamo fatto in tempo per fartelo vedere. Ma lo faremo. L’ultima volta mi hai chiesto: “Will you do that for your father?“. “I’ll do!“.

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16 marzo 2012 – Lunedi’ saluto il Ghana. Sembrerebbe tempo di bilanci, non qualcosa di definitivo, niente lo e’. Una valutazione, semplicemente. Su cosa ho fatto in questi mesi, ma soprattutto su cosa resta da fare. Sempre qualcosa da cominciare, questo e’ cio’che mi portero’ dietro. Sono arrivata con un obiettivo, la realizzazione di  un centro medico ad Adutwam, riparto con tanti altri nella mente. Nella mente mia e di altri. Perche’ ogni progetto, ogni idea e’ condivisione, sforzo collettivo, desiderio e speranza comune. Non e’ un caso che vado via e la clinica non e’ conclusa. Devo imparare che le cose sono in divenire e devono tener conto anche degli altri, non solo della mia fretta, ansia o urgenza di fare e finire le cose.

Nel frattempo pero’ di progetti ne sono nati tanti altri: quello di realizzare un asilo ad Adutwam, la partnership con Radio Ada e con Amoah per Voci Globali e, sempre per VG, il progetto di realizzare un Information Centre a PKS. E poi non devo dimenticare che e’ partito il microcredito per le donne di Adutwam. Le cose che cito sono solo quell gia’ realizzate o in corso, tengo ancora “nascoste” quelle che al momento sembrano sogni o idee troppo grandi. Ma so gia’ che un giorno saro’ qui a parlarne come di realta’ e concrete realizzazioni.

Lascio questo Paese anche con la speranza (e in realta’ la sensazione) di non essere solo una donna bianca privilegiata e straniera… Qualche giorno fa in un angolo del Volta Region, al mercato una donna mi ha chiamata yevu, (il corrispettivo di obruni in questa parte del Paese), ma la vicina le ha detto “perche’ la discrimini? Chiamala sister…”. Lo so dall’Italia puo’ essere difficile capire cosa cerco di dire. Comunque sia, rimane nella mia memoria, e forse un po’ in quella di chi leggera’.

11 marzo 2012 – Mi hanno chiamata Angel. Ad Accra, dei bambini musulmani. Mi hanno spiegato che da queste parti chiamano così i bianchi e vederli rappresenta una sorta di benedizione. “Possono fare qualunque cosa persino compiere dei miracoli” è quello che pensano. Ci sono momenti in cui mi sento diversa, outsider e ce ne sono altri in cui mi sento partecipe, elemento del gruppo tra tutti gli altri elementi. Sarò sempre una Sunday born qui? Una più fortunata, dotata e ricca degli altri semplicemente per il colore della pelle? Potrò mai essere amata, apprezzata e guardata per quella che sono? A volte mi sembra di viaggiare in universi diversi più che di calpestare lo stesso pianeta. Mi sembra che non potrò mai avvicinarmi del tutto né lasciarmi avvicinare. E sento di non appartenere completamente a nessuno dei due pianeti. Basta aprire il proprio cuore per trovare la strada? Non lo so. A volte penso di sì e ne sono convinta, oggi forse sono nella parte più ombrosa di me stessa…

Forse per trovare l’essenza dell’uomo a qualunque latitudine basta semplicemente fare riferimento alla nostra comune umanità, tralasciando lingua, costumi, abitudini, esperienze diverse. E da dove nasce la comune umanità? Voglio che Nam Myoho Renge Kyo, la legge mistica, arrivi dove le parole e le spiegazioni non potranno mai arrivare.

Uno dei mille e mille Adinkra Ashanti (figure geometriche simboliche) significa: “All fingers are not  equal” (non tutte le dita sono uguali) ma tutte insieme formano la mano e la rendono utile, unica, indispensabile. Ecco, sono semplicemente il dito della mano di un pianeta. Un pianeta che non finisce e che si tende per stringere la mano di quell’altro che ha incontrato in un giorno speciale della vita.  Chissà se riuscirà a tenerlo stretto.

3 marzo 2012 – Una caramella è solo una caramella. Toffee. Dolce, zuccherosa, morbida o consistente. Ma non è così. Una caramella può essere desiderio, contatto con angoli di mondo sconosciuti, elementare piacere mai provato. Continua a stupirmi la reazione che la vista e l’offerta di una caramella provocano quaggiù. E non sto parlando di bambini, per quanto anche il loro entusiasmo e meraviglia che li lascia senza parole sia ogni volta emozionante. Parlo degli adulti. Persone di 20, 50 o 70 anni. Non c’è differenza. Sono bambini di fronte al cioccolato (come i  nostri bambini di fronte al cioccolato), ma c’è di più. C’è il piacere di una scoperta che unisce due mondi, c’è la semplicità di accettare senza pudori inculcati e falsi, c’è la spontaneità di mostrare una curiosità che non teme di essere giudicata.

A volte mi sento così stupida, ma ora ho capito che nessuno sembra prendere le mie offerte come un’offesa. Anzi. Sembrano così grati, anche se io – lo confesso – non so perché mi sento un po’ superba e arrogante (devo capire perché provo questo…).

Ma non pensate che sia così dappertutto, è nei villaggi e tra le persone che vivono con difficoltà la loro esistenza che ho sentito quello che sto raccontando. Basta spostarsi a Kumasi o nella capitale e tutto cambia. Così scopri che il desiderio più puro e semplice è fatto di sofferenza e privazione. Il valore di una caramella equivale al valore che si dà alla propria vita. Anche senza saperlo. Una spontanea celebrazione dell’esistenza vera. Sono felice di aver potuto fare anche questa esperienza. Non è una cosa superficiale, è più profonda di quanto io riesca a descrivere e mi dispiace non riuscire a spiegarmi come vorrei.

2 marzo 2012 – Non mi sembra vero, riesco a fare un aggiornamento di questo blog. Sei giorni senza corrente! Pubblico una foto sullo stato dei lavori ad Adutwam. Per quando lascerò il Ghana, 19 marzo, non ce la faranno a concludere. La realizzazione delle fondamenta ha rischiesto più tempo e fatica (e soldi) del previsto considerato la difficoltà e la pendenza del sito. Ma sono soddisfatta, le persone che vivono in questo villaggio sono davvero hardworking e il chief (come già ho scritto) è una persona autorevole e determinata.

E poi c’è Nicholas che è una figura fantastica per Ashanti Development. Instancabile, attento, sensibile e serio. Ulteriori aggiornamenti mi verranno da lui. Poi però quando la clinica sarà pronta bisognerà pensare a riempirla… Ma ora è meglio concentrarsi sul presente.

A proposito, sono ormai in dirittura d’arrivo le procedure di registrazione della clinica di Gyetiase, che sarà un’eye clinic (struttura per malattie degli occhi – particolarmente seri in questa parte del Paese per il sole, l’harmattan e moltissimi casi di diabete – e problemi di vista). A luglio cominceranno i lavori di adeguamento e poi … in un piccolo villaggio sperduto del centro del Ghana ci sarà una struttura medica specialistica. Bello no? Noi, come Ashanti Development Italia, (se ne sta occupando Davide Galati) stiamo dando il nostro contributo per la creazione di un data base che servirà per i medici volontari che si alterneranno nella struttura e per lavorare con criteri razionali.

Intanto ecco la foto della nostra Adutwam, impegno di Ashanti Development Italia.

26 febbraio 2012 – Notte, daimoku a voce alta nella foresta con il vento che soffia alberi di mango e banani. E in lontananza giovani che danzano, cantano, percuotono in un rito a me incomprensibile…

24 febbraio 2012 – Situazione attuale: due giorni di black out, pioggia torrenziale, cellulare partito che non mi invia i messaggi (la sola a riceverne uno è stata Pia e mi domando ancora per quale mistero), finalmente torna la corrente e mi metto al computer (ho urgenza di inviare un pezzo all’Indro) ma… il server non mi invia le mail. Per finire, la porta che dalla mia stanza dà accesso al bagno si è bloccata e per andare a fare la pipì devo fare il giro del reame…  Insomma se non esiste Santa Antonella di Gyetiase mi propongo. Ovviamente è tutta un’esagerazione da donna europea che dimentica qualche volta di paragonarsi a chi la corrente elettrica non ce l’ha mai, Internet non sa cosa sia e per i suoi bisogni usa il bush. Comunque sia voglio passare qui la mia vita.

In questi giorni si sono ripetuti gli incontri nei vari villaggi dove Ashanti Development ha in corso o sta per iniziare dei progetti. Che bello vedere la gente tutta intorno seduta in cerchio e prendere la parola una alla volta  per arrivare ad una decisione collettiva e condivisa; che bello vedere disegnare il proprio villaggio sulla terra con un ramoscello;  che bello vedersi circondati dalla foresta e da gente curiosa, con gli occhi accesi e contenta. E ti capita che dicano: “incontrare un bianco è un evento storico” (sic!) – traduzione di Nicholas – e tutti si mettono in fila (in semicerchio) per stringerti la mano. Che grande valore danno alle cose alle persone. Bisogna fare sempre così…

20 febbraio 2012 – Oggi è il compleanno, il primo, della piccola Antonella, la mia goddaugther. Io e Davide le abbiamo organizzato un piccolo party. Un plum-cake comprato a Kumasi, candelina comprata a Padova, caramelle tedesche portate dall’Italia e palloncini impolverati e malandati comprati nel villaggio. Sembra poco? Qui è moltissimo, no direi è troppo visto che credo nessun bambino sia stato mai festeggiato così. Forse è a questo che pensava Felix che tra poco compirà undici anni e sembra che ne abbia il doppio. Bello come un angelo nero e maturo come neanche un uomo a volte sa essere. È un’eccezione qui a Gyetiase, parla un ottimo inglese, è silenzioso e gentile, ambizioso (sogna di fare il giornalista o il dottore e … di farsi notare da un bianco …) e quasi fuori contesto.

Antonella non era in vena, di solito sorride ed è tranquilla, invece oggi ha pianto spesso. Forse anche per lei era troppo. Mi domando sempre quale sia l’atteggiamento giusto: dare niente è impossibile ma trovare la misura è indispensabile.

Eccoci qui

18 febbraio 2012 E’ notte, o meglio si va verso l’alba (3.34) e come al solito sono sveglia. Da fuori mi arriva il suono di una radio che parla, parla e non so nemmeno se c’è chi l’ascolta o è li solo a dar fastidio. Allora ne approfitto per caricare una foto, aggiornamento dei lavori di costruzione della clinica ad Adutwam. E intanto penso… Ma prima di pensare voglio ricordare, prima di tutto a me stessa, che se tutto questo sta avvenendo è grazie alla generosità di qualcuno che si è guardato intorno e ha deciso di non vivere solo per sè, ma di fare qualcosa per persone cosi’ lontane, che tra l’altro neanche ancora conosce.

15 febbraio 2012 – In questi giorni mi sento overwhelmed, ma è uno stato in cui mi succede di trovarmi spesso qui. Cose da fare, emozioni da provare, pensieri da ordinare… e poi arriva un momento in cui ti senti travolto e vorresti riposare la mente. Ma non si può. Stamattina sono andata a girare dei video a Old Daman, villaggetto di poche centinaia di abitanti. Lo scopo è farne un breve filmato da mostrare ad una persona che vive a Londra, che ha sostenuto finora le persone del villaggio e che non potrà più tornare a rivedere e salutare. Sta morendo di cancro e il suo desiderio è vedere come se la passano gli “amici” Ashanti. Se la loro vita è migliorata un pochino grazie al suo aiuto, magari di che cosa hanno ancora bisogno (tanto), qual è il risultato del suo impegno. Ci sono persone che sono naturalmente proiettate verso gli altri, rivolte a osservare il mondo intorno e pronte a fare la loro parte, piccola o grande che sia. Sempre importante, sempre essenziale. “La rivoluzione umana di un singolo individuo può cambiare il destino dell’umanità” “A great human revolution in just a single individual … will enable a change in the destiny of all humankind” – Daisaku Ikeda.

Al suo secondo matrimonio questa donna (di cui non lascio il nome per questioni di privacy, naturalmente) ha chiesto agli amici di destinare i soldi che avrebbero speso per farle un regalo a progetti nel villaggio. Di Old Daman l’aveva colpita l’estrema povertà degli abitanti e condizioni di vita (sanitarie prima di tutto) davvero insostenibili. Gyetiase al confronto è un paradiso. Quando lei non ci sarà più a dare il suo piccolo grande contributo, chi lo farà? Sono sicura che esistono tantissime persone come lei.

Per questo il mondo non è poi un posto così brutto in cui vivere. Non voglio strappare lacrime ma un sorriso, perché cose come queste dovrebbero farci sentire più felici e fiduciosi nell’umanità.

14 febbraio 2012 – Non sono sparita. Ad essere sparito era il mio blog (e il sito tutto) a cui non riuscivo più ad accedere. L’altra notte ci ho speso due ore … le ho tentate tutte, anche scritto a WordPress per il supporto (mi hanno diligentemente ignorato …). Stanotte (ormai qualcuno di voi sa che la notte qui per me è come il giorno) ho usato la strategia del Sutra del Loto e ora … rieccomi! Devo ringraziare anche Davide che mi rassicurava “vedrai risolveremo il problema, troveremo una soluzione”. Eh sì, Davide è qui. E’ una consolazione per molti aspetti. Condividere quello in cui si crede è sempre importante  e se scopri che la persona con cui stai condividendo alla fine si coinvolge come te allora vuol dire che non sei la sola persona folle in questa parte del mondo.

Dunque, ho mille e una cosa da raccontare. Ora però vi aggiorno sull’ultima, la più importante per me. I lavori ad Adutwam sono ricominciati, dopo la pausa funerale (e un paio di incendi nel bush che hanno tenuto tutti impegnati nello spegnimento).

Ecco in questa foto a che punto siamo.

Oggi Davide è venuto con me ad Adutwam. Prima di partire i bambini della scuola materna che i suoi figli – Pietro e Lorenzo – frequentano, avevano preparato insieme alla maestra  dei disegni da inviare ai “compagni” africani. Così oggi abbiamo portato ai bambini di Adutwam una piccola parte del’infanzia italiana (padovana). Nel villaggio c’è la scuola primaria ma non quella materna e il nostro sogno (mio e di Davide) è quello di riuscire a costruirla. Penserete: non hai ancora terminato la clinica e già pensi ad altro. Certo! Pensiero e azione. Desiderio e realizzazione. Il direttore della scuola e gli insegnanti sono stati entusiasti e hanno aiutato i bambini a preparare a loro volta dei disegni che Davide porterà ai bambini italiani. C’era un’atmosfera bellissima e non vi dico la lezione sul Ghana e sull’Italia fatta in inglese e in Twi ai bimbi! Eccone alcuni (sono molti di più e col tempo spero farete la loro conoscenza).

A proposito già da ora chi vuole contribuire e aiutarci a realizzare la scuola materna è il benvenuto. E già i bambini, gli insegnanti e il villaggio tutto vi ringraziano.

Torno presto (se WordPress e la connessione me lo consentono).

2 febbraio 2012 – Oggi, dieci anni fa. Un dolore troppo grande, ma la vita mi ha fatto anche un regalo meraviglioso (uno tra i tanti, tanti, tanti). Mantieni un posto nel mio cuore, un posto che è solo tuo.

31 gennaio 2012 – L’ho già detto che in Ghana il funerale è il momento più importante nella vita di una persona? Il sovrintendente dei lavori di Adutwam (che faceva parte del consiglio degli anziani) è morto all’improvviso. Inutile chiedere la causa, nessuno te la sa dire. Giovedì era vivo e venerdì era morto. Questo ha voluto dire – e vuol dire – uno stop nei lavori. Perché tutti, ma proprio tutti, devono presenziare alle varie cerimonie e poi al funerale vero e proprio. Si tratta di giorni, a volte settimane. Noi siamo “fortunati”, probabilmente la prossima settimana il common labour potrà ricominciare.

Comunque hanno terminato il basamento (se si dice così). Insomma le fondamenta e il piano terra (con tanto di cemento fatto e sparso con i mezzi più artigianali esistenti, spatola e forza di braccia e sudore, e così possono cominciare ad alzare i muri. Ecco una foto.

28 gennaio 2012 – La malaria è una malattia subdola. Si nasconde, si mimetizza e poi si manifesta. E se non la comprendi, o non hai i soldi per curarti ci rimetti la pelle. E’ sera, non riesco a dormire e sono davanti al mio laptop. Da questo capisco che sono guarita, o almeno che il peggio è passato. Per circa una settimana sono stata un’altra, trascinata tra il letto e il bagno e due giorni e una notte d’ospedale. Non sapevo cosa fosse una flebo, non sapevo cosa fosse la dissenteria, non sapevo cosa si provasse ad essere talmente privi di forze da non riuscire a tenersi in piedi o a tenere gli occhi aperti tanto da addormentarsi senza neanche rendersene conto. Ora lo so. Ho pensato di morire e non mi piaceva (non pensate che esagero, quando non sei mai stato ammalato ti prendi un bello spavento).  Ma ho pensato anche a tutti quelli che non possono curarsi. E a tutti quelli nei villaggi che quando chiedi (come l’uomo che fabbricava il kente) “come è morto?” ti rispondono: “male allo stomaco” o “era malato”. E magari era “semplicemente” malaria.

Ora sto meglio – e spero che la malattia non me lo stia solo facendo credere -. Sono fortunata. Fortunata ad avere persone che non mi hanno abbandonata un secondo: Diana, con me tutta la notte in ospedale tra vomiti, diarree, flebo e deliri, che quando aprivo gli occhi vedevo sempre i suoi occhi posati su di me; Mr. Marfo (my step-father in Ghana); Nicholas; Vivian e la piccola Antonella, Aunt Lizzie. E ancora l’insegnante della scuola del villaggio che è venuto a trovarmi in ospedale, i medici (e l’infermiera che mi ha applaudito quando finalmente sono riuscita a ingoiare le pillole senza vomitarle); persino i curiosi che di tanto in tanto si affacciavano per venire a vedere la donna bianca in un letto d’ospedale. Mi hanno scritto mail, telefonato da Londra (non conto le telefonate dall’Italia di Pia che nel momento più tragico mentre ero in ospedale è riuscita a farmi una ramanzina) e i compagni di fede mi hanno dedicato Daimoku. Come potevo continuare a stare male? Mi sentivo troppo in colpa. Grazie a tutti!

Per la cronaca, l’ospedale dove sono stata ricoverata è una clinica rigorosamente privata (sennò col cavolo) e si chiama: Calvary Health Services: Mi domando: ma chi glieli suggerisce ‘sti nomi?

26 gennaio 2012 – Invece era (è) proprio malaria. Troppo male per parlarne ora. Per combatterla mi occorrono tutte le forze che possiedo. A presto.

23 gennaio 2012 – Esperienze di cuore. Quando non corri come un folle dietro agli impegni di ogni giorno hai il tempo di osservare cose che altrimenti non vedresti o di fare esperienze che  non faresti nel contesto abituale della vita.

Qualche giorno fa ho visto due giovani caprette praticamente appena nate. Cercavano di aggrapparsi alle mammelle della madre e incespicavano di qua e di là. Non so se ho sviluppato l’amore per le capre a Gyetiase o ce l’avevo dentro da qualche parte… chissà. E’ che le trovo divertenti, mi fanno ridere quando saltellano e si rincorrono, mi fanno tenerezza quando belano per ritrovarsi e possono rinoscersi tra loro a distanza. Per noi un belato è un belato e una capra è una capra. Ma loro sono simili, non uguali. Ammetto che ho pensato: altre due che si aggiungono al coro delle capre urlanti. E sì perché talvolta belano come se urlassero, come il pianto di un bambino. E quando ti passano sotto la finestra alle 4 del mattino, beh n0n sei proprio contento. Ma il giorno dopo le due caprette (bianche e nere) non saltellavano più. Erano morte. Entrambe. Il motivo non lo so. Ma stavano lì, stese e immobili. Piccole piccole. Accanto a loro la madre. Le annusava, le toccava, le spingeva cercando forse di tirarle su. Per due giorni le caprette sono rimaste lì, nessuno le ha rimosse. E per due giorni la mamma andava e tornava e stava ore accanto alle caprettine, ripetendo gli stessi gesti. La cosa strana è che non ha mai belato. Semplicemente apriva la bocca e non emetteva alcun suono. Sembrava che piangesse. Poi qualcuno ha (finalmente) portato via le caprette. Ma per altri tre, quattro giorni la mamma è tornata nello stesso posto a guardare e annusare. Poi pian piano ha smesso di restare nel posto dove prima erano i corpi delle caprette, ma si accovacciava un po’ più distante e restava lì. Niente belati. Non so come funzioni la memoria di una capra. Ma visto che i sentimenti nascono e risiedono nella mente (il cuore semplicemente pulsa) per tutto il tempo in cui ha “ricordato” ha amato i suoi caprettini ed è rimasta a lutto per loro. Mie interpretazioni sentimentali? Può essere. Sto comunque raccontando quelllo che ho visto.

Volevo trascorrere qualche ora rilassante sulla spiaggia di Busua, 20 kilometri circa ad ovest di Takoradi, considerata una delle più belle e più sicure del Paese. Mare e spiaggia magnifici, pesce a go go (e aragoste a 6-7 Ghc  – praticamente 3-4 euro), ma sono finita a fare il test per la malaria all’ospedale di Dixcove, venti minuti da Busua. Le zanzare mi hanno massacrato (e io avevo scordato l’antirepellente) e la notte l’ho trascorsa tra i bruciori della febbre e le corse al bagno per (diciamo così) problemi di stomaco. Avendo esperienza dei sintomi di malaria (solo un paio di giorni prima avevo accompagnato una persona del villaggio in ospedale) ho pensato: di sicuro ho la malaria. Invece no, il test è risultato negativo. Non sto ancora bene, ma almeno  non è malaria.

Mentre aspettavo i risultati del test si è avvicinata una bambina (5-6 anni) sporca e trascurata (nessuna novità qui) e ha cominciato ad accarezzarmi e ad abbracciarmi. Mi accarezzava con il palmo e con il dorso della mano, mi accarezzava le braccia, le mani, il seno. La dolcezza di un bambino in quello che sembrava il tocco di un adulto. E poi mi abbracciava e diceva cose incomprensibili. E mi guardava e guardava e sorrideva. Ha cercato di convolgermi in qualche gioco anche. Dimenticherà completamente di me. Io probabilmente dimenticherò il suo viso. Ma non dimenticherò il tocco gentile delle sue manine. Un sollievo al mio malessere.

Di entrambe queste situazioni non conservo neanche una foto. Quando ero con le caprettine morte e la mamma stavo semplicemente lì con loro e solo alla fine ho realizzato che nemmeno per un attimo ho pensato di fotografare la scena come se avessi riflettuto sul fatto che l’intimità di un dolore deve rimanere tale. Ma è stato solo istinto. Nel secondo caso non avevo la macchina fotografica con me e forse è meglio così. Rimarrà la sensazione, il ricordo di un incontro che potrebbe essere stato semplicemente un sogno.

Lo so, rischio di sembrare folle e naif, ma non importa, voglio condividere lo stesso queste esperienze e riflessioni.

11 gennaio 2012 – C’e’ un fenomeno che attraversa Gyetiase e dintorni. Si chiama attrazione cieca. Consiste nell’innamorarsi di questi luoghi e di questa gente prima ancora di conoscerli. Io li ho conosciuti per caso (se il caso esiste, e non esiste…). Un legame che e’ partito dall’Uganda, e’ passato per Londra ed e’ arrivato in Italia,  attraversando prima Bruxelles e poi la Bulgaria. Tralascio spiegazioni lunghe e tutto sommato inutili. Ho cominciato a fare la mia piccola parte per Ashanti Development prima di saperne molto, prima ancora di conoscere le persone. Poi, finalmente sono arrivata qui, in Ghana e l’amore si e’ rivelato ben speso. Ho conosciuto Penny, David, Nicholas e gli abitanti di questi villaggi. E sono ancora qui…

Ora, che l’attrazione cieca colpisca me e’ un conto, ma che colpisca persone che lavorando in banca dovrebbero avere una mente piu’ lucida e razionale e’ un’altra. Non c’e’ spiegazione. A meno che non c’entri in qualche modo la magia. La magia di Ashantide…

Anche loro, amici della sede Antonveneta di Padova, hanno cominciato a fare qualcosa per questi villaggi prima ancora di conoscerli. Fidandosi e affidandosi come per le attrazioni cieche. E usando la fantasia. Vi piacciono? (foto) Sono portapenne sostenibili. Portapenne Ashanti. I simboli disegnati sugli oggetti sono della tradizione e della cultura Ashanti e dell’Africa occidentale. Col tempo forse saremo anche in grado di spiegarli uno per uno.

I portapenne saranno messi in vendita (5 euro) e il ricavato andra’ a finanziare progetti di Ashanti Development Italia.

Le esperienze piu’ riuscite sono quelle condivise. E in questa iniziativa la condivisione c’e’ di sicuro. Le cose sono andate cosi’: Gigi Barusco ha mangiato gli yogurt; Fabio Romanato ha ideato l’opera; Fabrizio Masenello l’ha personalizzata con i simboli del’Africa occidentale e Paoletta Olivi ha fatto da consulente.  E’ sempre bello ricevere un dono inaspettato e questo segno di affetto nei confronti dei villaggi che Ashanti Development cura ci fa molto felici. Ehi, ma abbiamo ricordato che dietro questo coinvolgimento c’e’ un amico (e compagno di avventura con Voci Globali) che si chiama Davide Galati? Lui forse alle attrazioni cieche crede meno visto che ha deciso di venire a vedere (e di innamorarsi) di persona. Lo stiamo aspettando!

10 gennaio 2012 – Lavori in corso…  


8 gennaio 2012 – Continuo ad imparare. La lezione appresa si chiama “wake keeping, ed è il mio tormento. E’ un’altra norma consuetudinaria e significa restare svegli tutta la notte per onorare la morte di un parente o amico in attesa del funerale. Ora, che si stia svegli tutta la notte può sembrare normale in questo caso, ma qui in Ghana non ci si limita alla veglia. Veglia vuol dire musica, urla, canti, rumori ininterrotti per ore, ore, ore. Nell’area di Kumasi da qualche anno tale norma è stata abolita (e ti credo, quanti funerali ci saranno ogni giorno in una grande città come Kumasi?). Ma nei villaggi la regola è rigidamente rispettata, vi assicuro.

Il fatto è che il wake keeping non si fa solo nel villaggio del defunto, ma anche in tutti quei villaggi dove il defunto aveva parenti. E tutto questo va avanti fin quando non sono arrivati tutti (anche dall’estero) per assistere al funerale. Nel frattempo il morto si tiene in … cella frigorifera. Il wake keeping ha anche lo scopo di raccogliere il denaro per sostenere le spese del funerale, del mantenimento del corpo in ospedale (a volte anche un mese) e per garantire cibo e bevande durante le celebrazioni. Le mie fonti sono Nicholas e Diana in questo caso.

Questa notte qui a Gyetiase è stato un delirio. Agli strumenti tradizionali ormai aggiungono la musica sparata a tutto volume e trasmessa con un sistema di diffusione che fa schifo. Mi sono spesso domandata: “ma perché nei tro tros tanta gente – anche giovane e anche di mattina – cade in un sonno profondo?” Oggi mi sono data la risposta. Al Kaikan mi sono addormentata seduta (se segui un meeting in lingua Twi e la notte non hai chiuso occhio è il minimo che ti può capitare) e nel tro tro mi sono addormentata alla maniera ghanese, accartocciata sul sedile davanti.      Alcuni strumenti per far  … casino, pardon musica.














5 gennaio 2012 – E’ la leadership a garantire il successo o il fallimento di un’impresa. Ma come si fa ad essere un buon leader? Credo che sia una questione attitudinale da un lato e un segno di maturita’ e saggezza dall’altro. La leadership nei villaggi africani, dove vige la cultura del capo villaggio, è fondamentale. Vi sono villaggi dove i progetti (anche di Ashanti Development) sono falliti o vanno a rilento solo perché il leader non ha autorità, non è riconosciuto da tutti i membri del villaggio o non è capace di gestire gli affari della comunità.

Adutwam, dove stiamo costruendo il centro medico come Ashanti Development Italia, è un grande esempio di una leadership capace e intelligente. Quando andiamo a verificare lo stato di avanzamento dei lavori troviamo lì Nana Appiah Kubi, il capo villaggio. Sempre presente e con la sua stampella si muove di qua e di là per osservare, consigliare, stimolare. Trasmette autorità ma non arroganza e, nonostante la stazza, ha dei modi assai gentili. Insomma avrete capito che mi piace. Mi piace il suo modo di fare. Tranquillo, attento, determinato.

Nei villaggi si applica una legge consuetudinaria, basata sulla tradizione e i costumi locali (by-law). Prendiamo per esempio il common labour per costruire il centro medico.  Tutti (divisi in gruppi) devono partecipare. Chi non si presenta deve pagare una multa di 10 Ghc alla Unit Commettee del villaggio per ogni giorno di assenza(i soldi in cassa sono utilizzati per la comunità). Nel caso di ulteriore rifiuto il capo del villaggio può rivolgersi alla polizia e addirittura fare arrestare la persona in questione. Una altro caso è: se il chief  convoca un membro della comunità è come se si trattasse di una convocazione davanti alla Corte. Anche qui, in casi estremi, il capo villaggio può rivolgersi alla polizia e chiedere l’arresto del trasgressore.  Ora direte: “è per questo che lavorano sodo!”. No, vi assicuro che gli abitanti di Adutwam sono molto laboriosi e grati dell’opportunità che gli è stata offerta. In questo stesso periodo Ashanti Development sta realizzando un asilo a Krwi. Ebbene se Nicholas non va lì i lavori rimangono fermi e per settimane non hanno fatto grandi passi avanti. Adutwam che ha iniziato i suoi lavori dopo, li ha di gran lunga superati. A Krwi c’è una disputa tra due fazioni che sostegnono due differenti capo villaggio. E questo è il risultato.

Un grande albero non fa una foresta. Solo quando molti alberi crescono alla stessa altezza si ha un bosco di grandi dimensioni. Un vero leader è colui che dedica se stesso a crescere persone capaci a cui affidare il futuro” – Daisaku Ikeda

La saggezza non viene dalla posizione che si ricopre ma nasce dal senso di responsabilità” – Daisaku Ikeda

3 gennaio 2012 Oggi capatina ad Adutwam. I lavori in questi giorni sono andati avanti, le persone del villaggio sono molto determinate e si sono divise in vari turni. Qui si vive su un’agricoltura di sussistenza e non andare nei campi per un solo giorno vuol dire non avere cibo da mettere sotto i denti. Ma si sono organizzati in modo che l’impegno pesi su tutti in maniera equa e non infici molto la normalità della vita quotidiana. Tutto il lavoro è fatto a titolo gratuito, pagheremo solo 8 lavoratori specializzati. La tariffa sarà la metà (per la natura del lavoro che stanno svolgendo, che è diretto a tutta la comunità), ma saranno solo persone del villaggio in modo che il denaro rimanga in qualche modo all’interno della comunità.

Si comincia a vedere qualcosa, vero? In corso la costruzione del basamento.

3 gennaio 2012 La potenza e la bellezza travolgente dell’Oceano nei miei occhi per qualche giorno. Lungo viaggio, breve e totalizzante sosta. Mi sono concessa una vacanza dai rumori di Gyetiase. Direzione Beyin e Nzulezo sulla costa che affaccia sul Golfo di Guinea, nell’Oceano Atlantico. Non molto distante dal confine con la Costa d’Avorio (e infatti lungo la strada ho incrociato almeno tre campi rifugiati. (Ricordate cosa è successo l’anno scorso? Gli scontri seguiti alle elezioni presidenziali tra i sostenitori  del presidente uscente Gbagbo e il neo eletto Quattara. Centinaia di morti e violenze di ogni tipo).

L’Africa è un viaggio con destinazione incerta. E’ quello che continuo a pensare di questo continente che ti riserva quanto non ti aspetti, ti stupisce e sconvolge i tuoi piani. I mei erano arrivare a Beyin e vedere Nzulezo, il villaggio sulle palafitte (stilt village). Ci sono arrivata, ma che impresa. Un viaggio sudato, impolverato, condiviso con centinaia. Sì perché le persone che viaggiano con te finiscono per essere sempre troppe e troppo vicine. Nei taxi collettivi (che sono automobili normali) dove ci si sta fino a sette (e mi è capitato anche in otto e più quando l’ottavo era un bambino e il più una gallina) come nei mezzi di trasporto pubblici o nei tro tro privati. In un solo giorno ho preso tre taxi collettivi, due tro tros e due metro mass. Quest’ultimo in particolare (Kumasi/Takoradi e ritorno), un’esperienza indimeticabile. Mass, termine giusto per indicare la massa di persone e di bagagli che ci puo’ stare dentro. Certo i posti a sedere (se non sbaglio 52) sono contati, anche se vendono qualche biglietto in piedi per percorsi un po’ piu’ brevi (due ore per esempio!) ma quello che non riesce ad entrare là dentro! Senza contare che il seggiolino sarà qualcosa come trenta centimetri. E che il viaggio è cominciato con la preghiera dell’autista e dei viaggiatori (buono o cattivo segno? mi sono chiesta. In Ghana quella per incidenti stradali è forse la prima causa di morte e mentre viaggi ti capita sempre di incrociare qualche mezzo rovesciato e scene apocalittiche. All’andata ho viaggiato con affianco una donna grossa con neonato di tre mesi attaccato al suo seno. Quello che riuscivo a fare era muovere la testa per sorriderle e una mano per accarezzare il bambino. Ma dopo sei ore di condivisione di sudori, odori e umori, siamo quasi diventate amiche… Al ritorno la mia compagna di viaggio di figli ne aveva tre e un marito. Anche in questo caso abbiamo condiviso per qualche ora l’intimita’ della nostra vicinanza. Volenti o nolenti. Le soste (per comprare qualcosa da mangiare e sgranchirsi le gambe) durante il tragitto sono qualcosa di fantastico. Come fare pipì? mi sono chiesta. Domanda superflua. Mi è bastato osservare gli uomini dirigersi da una parte della foresta e le donne dall’altro. Ho seguito le donne e mi sono ritrovata dietro il mio cespuglietto a fare la pipìaccanto alle altre ritirate dietro al proprio cespuglietto…

Ma il viaggio valeva la pena. Ho trascorso cinque giorni immersa nel rumore delle onde dell’Oceano, notte e giorno (e la notte quel suono era così impetuoso). A Beyin ho portato qualche sogno e ne sono tornata con altri ancora. Per il mio cenone di San Silvestro tonno grigliato, fufu, patate dolci e una star.  I miei fuochi di artificio sono state le costellazioni, chiarissime sopra di me.

Quello che ho visto nei giorni in cui sono stata lì: maiali, capre, pecore e vacche passeggiare sulla spiaggia, uomini scalare alberi di palma, bambini guardare il mare, pescatori tirare le reti. Fort Apollonia, altro luogo sulla costa destinato ad ospitare gli schiavi prima della partenza per l’America o l’Europa (restaurato recentemente dall’Università di Pisa). E poi il villaggio di Nzulezu dove vivono circa 500 persone. Nel villaggio c’è persino un asilo, la scuola elementare, una sala computer (le donazioni a questo villaggio sono molte) e una chiesetta cattolica (nel Paese non ce ne sono molte). Tutto costruito su palafitte in bambù, legno e raffia. Per arrivarci un lungo viaggio (sì viaggiare, viaggiare, viaggiare… per questo io e l’Africa andiamo d’accordo) su una stretta canoa lungo l’Amansuri Wetland, la piùgrande palude all’interno di una foresta in Ghana.

Ecco un’immagine di Nzulezu.

Questa, invece, è  l’alba che ha accompagnato il mio Gongyo di Capodanno. Vi auguro un anno magnifico. Per me il 2011 è stato un anno ricco e ben speso. Il 2012 sarà ricco, ben speso e prospero.

27 dicembre 2011 – Dopo una breve pausa natalizia ad Adutwam i lavori proseguono così: cemento trasportato sulla testa e mattoni sulle spalle.

26 dicembre 2011 – Letture gyetiasiane: Trois femmes puissantes‘ Marie NDiaye; ‘The other hand‘ Chris Cleave; ‘The poisonwood bible‘ Barbara Kingslover. Quest’ultimo è una grande storia nella Storia del Congo negli anni della lotta per l’indipendenza dal Belgio, passando per l’assassinio (ordinato dalla Cia e voluto sia dall’America che dal Belgio) di Patrice Lumumba fino alla trentennale (35 anni) dittaura di Mobuto.  Letteratura memorabile, riflessione sui velenosi (non sempre mortali ma sempre durevoli) effetti della colonizzazione (compresa quella religiosa),  diario di eventi storici. E la storia di una famiglia cambiata per sempre dall’Africa.

24 dicembre 2011 – Rumori folli, odori violenti, caos urlante e infernale. Ecco il Natale quaggiù. Nel villaggio le celebrazioni significano cerimonie religiose dalle 5 del mattino fino a notte inoltrata. A Gyetiase ci sono sei congregazioni religiose, quindi vi immaginate cosa vuole dire che tutte e sei hanno le loro proprie cerimonie e tutte, piu’ o meno negli stessi orari? La Chiesa di fronte all’headquarters di Ashanti Development – che è la più ricca grazie a fondi di espatriati – ha un impianto di amplificazione e sta mandando musica a tutto volume, ma tutto questo senza mixer quindi il risultato e’ un bum bum bum che ti spacca i timpani e ti fa saltare il cuore. Mi domanderete: cosa c’entrano le cerimonie religiose e il Natale con la musica di questo tipo? Perché qui è un tutt’uno. Cantano Gesù e le lodi al Signore a ritmi di reggae e highlife e pregano con i toni di un dialogo tra amici o urlando con tutto il fiato.

Quest’anno volevo scansarmela, avevo programmato di andare qualche giorno sulla West Coast, ma Nicholas – che due giorni fa era a Kumasi mi ha chiamato e ha detto “non partire, ci sono più persone che mezzi di trasporto. salire su uno di questi è una battaglia e tu non potresti vincerla“.  La saggezza ha vinto sullo spirito di avventura. Spero di riuscire a salvarmi per Capodanno (che per loro e’ un’altra occasione per fare … rumore).

Per scappare dall’inferno in cui in queste ore cade Gyetiase stamattina sono andata a piedi a Mampong (andare è  stato niente ma tornare sotto il sole dell’una…) Due ore circa alla fermata dei tro tros ad aspettare Amoah Opoku (probabile ad entrare nello staff di Voci Globali per il Ghana). Per arrivare da Meduma ha dovuto cambiare sei tro tros. Sali scendi, sali scendi. Benedetta saggezza…

Nel frattempo ho visto di tutto. Una donna che vendeva cibo, riso, carne, pesce, spaghettini (importazione spagnola) e altre cose che proprio non so. Tutto nello stesso piatto (o busta a seconda che si mangi lì o sia da asporto). Quanto? 50 pesewa e giù una certa quantità presa con le mani. Un Ghana Cedi, e giù un po’ di più. E così via. Cibo valutato con l’occhio – e le dita – esperte della venditrice. Chi mangia lì si siede dove può (vicino a me per esempio che mi sono raggomitolata su una panchetta) e usa un cucchiaio che hanno usato molti altri lavato (?) alla meglio. Si avvicina un vecchietto poverissimo con addosso un giubbino imbottito (?) che più consunto non si può. Porge una pentolina e la venditrice gli dà un po’ di cibo. Lui non paga e va via in silenzio e lentissimo. Lei neanche sembra vederlo. Eppure… Nessuna parola tra i due. Prima di andar via lui mi guarda con una specie di imbarazzo. (Non so decifrare). Non so cosa vorrei fare. Non faccio niente…

Chi invece ha un po’ di soldi a Natale c’è una cosa che non si fa mancare: una bella capra grassa. Ho visto caricarne una nel bagagliaio del tro tro in mezzo a un mucchio di altra roba. Il bagagliaio non riusciva nemmeno a chudersi, così lo hanno legato con una corda. Non posso pensare come sia stato il viaggio di quella capra, due tre ore soffocanti e con il tro tro che fa la gimcana per sventare i buchi sulla strada. Ma domani per lei sarà anche peggio, perché sarà uccisa e – mi ha detto Diana – mangiata seduta stante con tutti i parenti. Massimo resisterà fino al 26 dicembre. E mentre io mi disperavo Diana mi guardava con un’aria… e mi ha detto “Mio padre non può permettersela, ma quella carne is very delicious“. E si vedeva che le mancava un sapore sentito poche volte nella vita.

Oggi sto scrivendo troppo, vero? Quello che volevo dire in sostanza è che il Natale non è lo stesso in tutto il mondo. Anche se non ci pensiamo mai.

Vi lascio con questa foto. Un bambino di Adutwam, che in questi giorni non mangia panettone ma arance. Come ogni altro giorno dell’anno. Buon Natale.

21 dicembre 2011 – Market day in Mampong. La stessa atmosfera, le stesse donne, gli stessi odori forti e qualche volta insopportabili, la stessa ordinata, ordinaria confusione. Sono le mie sensazioni ad essere cambiate. Le mie percezioni, il mio approccio a questa realta’ cosi’ dannatamente esagerata e fuori dalla nostra portata. Mi sento bene e rilassata. A mio agio. Beh, quando riusciro’ ad affrontare con gli stessi sentimenti il mercato di Kumasi (considerato il piu’ grande mercato del West Africa) allora potro’ cosiderarmi un po’ africana. Dubito accadra’ se anche Diana (l’interprete per i volontari di Ashanti Development, nonche’ cuoca, nonche’ caretaker) in quel posto si sente a disagio. E’ un vero inferno, dove puoi trovare in vendita anche tua madre se cerchi bene. E tutti ti urlano da tutte le parti “A go, a go…” Tornero’ li’ e vi faro’ sapere. (Piu’ che altro aggiornero’ me stessa sulle mie reazioni).

Comunque e’ incredibile quello che puoi trovare (e che riusciamo dall’Occidente e dalla Cina a spedire) in un mercato africano. Stamattina in vendita c’erano usatissime e polverose pantofole da camera tipo quelle a forma di faccia di Pluto o chessoio di un panino al formaggio e, avete presente quegli stivali disponibili in tanti colori – li chiamano Alaska? imbottiti di lana o similare? Bene vendono anche quelli. La mia mente pensa un sacco di cose, anche se per non stancarsi troppo cerca di limitare la frase concreta ad un “che assurdita’!

La ricchezza – e la cultura – di un Paese si misurano dal tipo di package. Raffinato quello dei giapponesi, enorme e vistoso quello americano, ricercato quello italiano. Qui il package e’ inesistente, massimo una di quelle bustine nere di plastica che inquinano questo Paese e te le ritrovi tra i piedi dovunque tu sia, in una chiesa (let’s say), come nelle strade di un villaggio o nei percorsi cittadini di Accra. E poi le misure, qui il sale per esempio lo compri a bustine e i fagioli o i pomodori li “pesi” in una bowl, una ciotola.

Scena di un giorno di spesa per il sostentamento dei volontari di Ashanti, in questo momento io sola, Nathan Nelson, esperto ICT tra le altre cose, e’ tornato a Londra. In primo piano yam e plantain sullo sfondo.

Questo invece e’ smoked fish, quello che mangero’ stasera. 

20 dicembre 2011 – Ad Adutwam si scavano le fondamenta. Oggi gli uomini del villaggio hanno cominciato a scavare le fondamenta del centro medico. Una gran fatica, solo guardarli! Ecco la foto.

Oggi e’ stato anche il giorno del meeting con le donne del villaggio, con cui Ashanti comincera’ il suo programma di microcredito. Era con me Dorcas, la responsabile locale del progetto che abbiamo gia’ in cinque vilaggi. Si e’ cominciato con una preghiera, poi il mio … emh emh discorso e poi Dorcas ha spiegato loro di cosa si tratta. In sostanza concediamo piccoli prestiti con cui le donne possono avviare attivita’ produttrici di reddito. Il prestito verra’ restituito senza interesse . Le donne hanno scelto poi chi sara’ la loro rappresentante. Patricia Gyapong Manu, 31 anni, che parla un po’ di inglese (indispensabile per avviare il training e per tenere i contatti futuri).

I gruppi che si sono gia’ formati sono tre:  quello di  chi vuole intraprendere attivita’ commerciali a cui hanno aderito in 35, quello a cui hanno aderito chi vuole occuparsi delle coltivazioni (5 persone) e uno di cui fa parte una ragazza poliomelitica molto bella e con dei bellissimi capelli. Se ne stava li’ e le ho chiesto cosa sapeva fare, ha detto la parrucchiera (che poi non immaginatevi le parrucchiere da cui andiamo noi…) e allora le ho detto: proponiti per aprire uno spazio dove puoi esercitare la tua attivita’. L’ha fatto. Speriamo bene. Ora queste donne, e soprattutto Patricia che dovra’ seguirle, parteciperanno a incontri per capire cosa e come fare. E poi, speriamo bene. Stara’ a loro far fruttare l’opportunita’.

Quello che vedete nella foto e’ un momento del meeting.

A proposito, non vi ho detto ancora niente delle mie 4 amiche, le donne che ho intervistato la volta scorsa per il documentario sul microcredito. Cosa e’ accaduto in questi mesi che sono stata in Italia? Allora: Vivian ha partorito Antonella, la mia figlioccia: Afua e’ incinta di oltre tre mesi (quarto figlio), Joyce eanche e’ incinta di tre mesi (secondo figlio). Solo Martha e’ rimasta tale e quale.  Semplicemente perche’ ha settant’anni, presumo.

18 dicembre 2011Oggi meeting al kaikan di Kumasi (Meduma). Quando sono qui faccio parte di Meduma District. Eravamo in 18, 9 donne di cui tre giovani e 9 uomini di cui due giovani. E un numero imprecisato di bambini. Chanting is like eating (questo e’ stato in sostanza il mio contributo alla discussione). L’argomento era, come si e’ praticato nel 2011 e intenzioni per il 2012 (e’ stato l’ultimo meeting dell’anno). Qui la pratica fa i conti con tante credenze, superstizioni, condizionamenti religiosi imposti nel passato. E cosi’ chi deve dar conto ai vicini, chi alla moglie, chi al fetish doctor, chi alla propria pigrizia e indolenza. Chi di noi dimentica di mangiare? Nessuno perche’ sa che morirebbe. Il Daimoku ha lo stesso significato. Nutrimento.

Ho rincontrato persone gia’ conosciute. E tra queste il sokan Eric – Amoah, a seconda se si preferisca il suo nome europeo o quello ghanese (i nomi non corrispondono nel significato). E’ una persona deliziosa e mi fa capire molte cose della realta’ e cultura ghanese. Purtroppo un’altra trsite notizia. La moglie del guardiano del kaikan e’ morta qualche mese fa. Amoah mi ha detto che forse era TBC. Stava male da tempo ma quando e’ andata in ospedale non hanno capito cosa fosse, non l’hanno curata e l’hanno rispedita a casa. Dopo pochi giorni e’ morta. Aveva una quarantina d’anni e quattro figli. Tre con il precendente marito, uno con il guardiano del kaikan. Quando restavo a dormire al kaikan mi preparava da mangiare.

Mentre ero in tro-tro sulla strada abbiamo incrociato una donna che camminava sul ciglio della strada nuda da capo a piedi.  Credo avesse problemi mentali. Nessuno nel pulmino ha mosso ciglio. E’ incredibile come riescano a argomentare per ore di ogni cosa (quando a noi basterebbero due minuti) e a rimanere impassibili quando invece noi ci stupiremmo.

La buona notizia e’ che dovrebbe esserci un altro kente man nel villaggio. Ora vado a scoprirlo. Okyenao

16 dicembre 2011 Il profilo della costruzione e’ fatto. Ve lo mostro nella foto, sembra niente eh? Ma provate a lavorare con vanghe, picconi, machete e nient’altro. E’ proprio una gran fatica. Insieme ai due geometri hanno lavorato i piu’ esperti del villaggio (oltre a tanta manovalanza, soprattutto femminile – donne che portano travi sulla testa e bambini sulle spalle).

Mentre ero li’ per fare un po’ di foto e riprese mi hanno portato una sedia e me l’hanno accomodata sotto una pianta di banana (ma forse era plantain) e ieri mi hanno regalato non so quanti caschi di banane. Piccole e dolcissime. Trattamenti da regina…

15 dicembre 2011Ieri ad Adutwam gli abitanti del villaggio (uomini e donne) hanno cominciato a pulire il sito dove sorgerà il centro medico (ahimè hanno tirato giù anche degli alberi, ma ci siamo ripromessi di ripiantarne tutt’intorno una volta che i lavori saranno terminati). Si divideranno in tre gruppi, così come indicato da Nicholas. Ma è stato il capo del villaggio, Nana Adu Appiah Kubi a dare a tutti le indicazioni. E’ un tipo molto pratico (non indolente cme molti altri) questo mi piace ed è molto rispettato dalla comunità. Per tre giorni alla settimana si farà affidamento sul common labour e per i restanti due pagheremo personale specializzato. Torno domani.

Ho cominciato a registrare canzoni tradizionali Ashanti, chissà che non ne venga fuori qualcosa di interessante…

Oggi sono andata a trovare l’uomo del kente, volevo fargli guadagnare qualche soldino acquistando i suoi bei lavori. Ma il telaio non era fuori la sua baracca. E non c’era neanche lui. E’ morto qualche mese fa, “male allo stomaco” mi hanno detto non sapendo specificare meglio. Era così magro… Di lui rimane il passaggio nel video “Living in Gyetiase” (Vivere a Gyetiase). Lo trovate sulla Home page o su YouTube. Mi dispiace tanto…

Ora vado a comprarmi quel gin in sacchetti che vedono a 30 pesewa, (circa 20 centesimi) quindi si può immaginare cos’è, ma qui non trovo di meglio. Lo diluirò con della coca cola. Tanto per accompagnare la fine del giorno… Dayiyeoo

13 dicembre 2011Giornata sotto il sole, e sarà così per il tempo a venire. Prima ad Adutwam, il “mio” villaggio. E’ fantastico il fatto che la gente ti riconosca e da lontano comincia a chiamarti con quello che ormai è il tuo nome africano. Agyeiwaah Kodiè, in lungua Twi significa aquila e donna coraggiosa. Non so perché abbiano scelto questo nome ma ne sono orgogliosa e, se non aquila, cerco di essere coraggiosa.

Quando mi hanno comunicato che i lavori erano cominciati non pensavo si riferissero al fatto di aver cominciato a “fare i mattoni”, ma è così che si comincia, no?

Questo che sembra solo una foresta selvaggia è il luogo dove sorgerà il centro medico che realizzeremo come Ashanti Development Italia. E’ importante vedere da dove si è partiti.

Poi a Krwui dove Ashanti sta costruendo un asilo. Il bimbo fa il monello e la mamma gli indica me. Lo so che sta dicendo: fai il bravo sennò ti do alla donna bianca. Infatti finisce di fare il monello e ridiventa buono. Un altro mi vede, scappa e comincia a piangere quando lo costringono a venirmi vicino. Ormai ci sono abituata.

Chi invece non ha pianto, anzi si è fatta giocare e spupazzare è la mia … figlioccia, Antonella. E’ nata il 20 febbraio scorso, un paio di settimane dopo che ero andata via. Beh, dai comunque mi suona strano che le dicano: questa è la tua Nana, la tua grandma. Ok, per la nana, ma nonna proprio… E vabbè che qui a 47 anni magari sono anche bisnonne, ma non esageriamo.

Comunque, vi presento Antonella. Fa chic metterle i calzini, ma lei   sa che vive in un villaggio africano e di calzini non vuol proprio sentirne parlare.

12 dicembre 2011 – Oggi torno ad essere Nana Agyeiwaah Kodiè, che non è quello che può sembrare, ma un modo di pensare a quello che faccio e al perché lo faccio. Il fatto è che ogni volta rifletti e cambi idea, prospettiva, convinzioni. L’esperienza serve a fare meglio certo ma anche a rimodulare ogni volta i propri parametri e quello in cui avevi creduto qualche mese prima potrebbe essere rivisto a distanza di un po’ di tempo. Rendo tutto un po’ più chiaro: la domanda che mi pongo è: che ci sto a fare qui? Qual è il modo più giusto di ricoprire un ruolo che mi sono scelta e nello stesso tempo ritrovata sulla strada? Come si collabora allo sviluppo di un villaggio? Ma poi: è giusto che veniamo qui, seppure con le migliori intenzioni?

Riflessioni da primo giorno a Gyetiase… Mi faccio un sacco di domande. Quello che non si fa quando sei al sicuro a casa tua e non in mezzo a una foresta con gente che, dopotutto, ti è estranea.  A cui tu, nonostante tutto, sei estranea.

Ti riconoscono, vengono a salutarti, cercarti, si spargono la voce e i bambini chiedono toffee. E tu non gliele dai perché in questo momento non hai voglia di essere assalita (basta un attimo e sei circondata). E anche perché pensi: ma faccio bene? Vai a salutare il capo del villaggio (primo dovere da adempiere) e anche lui si ricorda di te e, quando gli chiedi come sta adesso ricordandoti che aveva problemi di salute, ti tiene lì un’ora a spiegarti per filo e per segno l’operazione che gli ha risolto il problema di ritenzione urinaria (si dice così?). E tu intanto non capisci nulla, ti guardi intorno e lo guardi e lo…  senti. E cerchi di trovarti uno spazio in quel mondo. O, almeno, dentro di te.

Awaaba!

10 dicembre 2011Stupori. Accra, dove l’acqua può mancare per settimane, per i motivi più vari (come la rottura di un tubo) e sei costretto a comprarla da un’azienda privata – che a sua volta la compra dallo Stato – e te la porta a casa nelle cisterne. Dove nel bel mezzo di un mercato c’è la moschea. L’edificio in legno, mattone e lamiere non è molto diverso dagli altri intorno, ma capisci che è una moschea: fuori tappetini, scarpe (?) e sorta di teiere in plastica colorata per fare le abluzioni. Sempre fuori, in una sorta di balconata esterna, si prega. Solo gli uomini. Tutt’intorno caos, sporcizia, merce di ogni tipo su pericolanti bancarelle in legno o a terra su plastica, sacchi di iuta o stoffe. E la gente. Sempre tanta. Paziente e silenziosa. E rumore. I ghanesi non conoscono il silenzio (solo quello personale, il loro silenzio), tutt’intorno parole, radio, suoni, galline. Il muezzin mi fa compagnia. Una moschea (“più moschea” di quella del mercato, con la mezzaluna e tutto) è proprio di fronte casa di Kwabena.

Accra, dove puoi partecipare al “Mobile Entrepreneurs Congress” dove si parla di tecnologia mobile applicata al business e al settore umanitario. E ci sono ragazzi, uomini, donne che si scambiano idee e progetti. Il futuro lo cercano da soli. Molti sono imprenditori, in qualche modo il loro futuro lo hanno trovato.

Accra, dove per strada ti vendono “Forbes” e arance, fazzoletti per asciugarti il sudore e l’orologio da muro con la faccia di Gesù. Dove 32 gradi ti entrano nel respiro. Dove per scrivere queste righe ci ho messo più di un’ora. Il tempo di accedere alla connessione. Dove mi piace. Ma Gyetiase mi piace di più. Domani parto per Kumasi. E poi alla volta del villaggio. Vi abbraccio.

9 dicembre 2011 – Eccomi di nuovo in Ghana. Fa un caldo che toglie le forze, ma dopotutto non ho forze anche perche’ il viaggio non e’ stato proprio confortevole. Sei ore d’attesa a Casablanca e un aereo (Air Maroc) che in certi momenti assomigliava piu’ a una corriera che a un velivolo: gente ancora in piedi mentre l’aereo rollava sulla pista e bagagli (buste, pacchi, borsoni) sistemati dappertutto, anche a terra e sui sedili. Poi, applauso all’atterraggio e  l’arrembaggio a buste, pacchi e borsoni. Beh, sono qui no? E poi dai e’ un vantaggio, in un certo senso, che anche se vai alla fila “national” per il controllo passaporti e ingresso, l’addetto non ti dice che hai sbagliato e ti manda via e al controllo bagagli passi liberamente, mentre agli “altri”, ghanesi o africani in genere, (at random) aprono i bagagli. Mi gira la testa dal caldo,  ma sono contenta. Sono a Tema (Greater Accra), la terza citta’ del Ghana. Sono con Joyce, che lavora al ministero del cacao e qui c’e’ il principale porto da cui partono spedizioni per tutto il mondo. Anche per l’Italia, Genova.

Sono sbarcata alle 5,10 e non dormo da ieri, ma quando Joyce mi ha detto “dai vieni con me a Tema” non ho potuto farne a meno. La voglia di vedere, sapere, conoscere e’ piu’ forte di qualunque altra cosa. Joyce e’ la moglie di Kwabena e insieme ai due figli (Nana Ama e Papa Yaw) accolgono i volontari di Ashanti Development al loro arrivo ad Accra, prima che si tuffino nella realta’ dei villaggi. Vi faranno preparare un ricco pasto. A qualunque ora. A proposito, arrivata da loro mi sarei volentieri data una rinfrescata, ma oggi manca l’acqua…

Domenica parto per Kumasi, da li’ verso Gyetiase.  Cerchero’ di aggiornare questo blog, ma da li’ sara’ piu’ difficile. Ciao!

3 dicembre 2011Oggi è un bel giorno. Ad Adutwam, un piccolo villaggetto nella Regione Ashanti del Ghana, sono iniziati i lavori di costruzione di un centro medico. Quando, il 22 novembre dello scorso anno, ho messo piede per la prima volta ad Adutwam non avrei mai pensato che avrebbe dato in qualche modo un corso alla mia vita futura. Sì perché l’idea di fondare Ashanti Development Italia è nata proprio da lì.

Se oggi il sogno di tante persone che mi avevano chiesto un aiuto sta diventando realtà lo devo certo alla mia determinazione, ma lo devo anche e soprattutto a chi ha mi ha creduto, sostenuto, accompagnato nel percorso di questi mesi. Quindi Pia, prima di tutto, poi chi ha “messo la firma” (e quindi si è impegnato in prima persona) per la fondazione della Onlus – Paola, Roberto e Irma. E ancora chi ci ha fatto donazioni in denaro e soprattutto il nostro grande donor che vuole rimanere discretamente in disparte, ma a cui dobbiamo l’accelerazione dei tempi. Partire in fretta – vale a dire cercare di affrontare certi problemi con tempestività – è fondamentale in quella parte del mondo, quindi gli siamo davvero grati.

La prossima settimana torno in Ghana, questo blog dunque sarà il mio contatto con tutti voi. Mi scuso già da ora se forse non sarò presente come vorrei poiché dovrò fare i conti con una connessione Internet molto lenta e capricciosa e spesso navigare in Rete, caricare foto, o anche solo scrivere una mail diventa un’impresa titanica. Che mette alla prova la pazienza e che, se anche riesci a diventare Giobbe, non è detto che vada a buon fine. Capita che mentre scrivi la linea cade e tu… dici le parolacce in lingua Twi.

Se mi sarete vicini commentando ogni tanto i miei post o anche solo mandandomi una mail ne sarò contenta.

Ciao a tutti!

  1. Spero di leggere un altro pensiero, anche solo una frase prima della partenza.

  2. antonello fabiano

    forza anto, combatti come sempre!

  3. insomma, queste caprette ci hanno fatto piangere tutti………

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